Trauma prolungato senza un grande evento traumatico - Psicologo Prato Iglis Innocenti

Trauma prolungato senza un grande evento traumatico

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Quando sentiamo la parola trauma, molti pensano a un evento singolo e “grande”: un incidente, un’aggressione, una catastrofe. Eppure, nella pratica clinica e nella ricerca sulla psicologia dello sviluppo, esiste un’altra traiettoria molto comune: persone che non ricordano un episodio specifico devastante, ma che hanno vissuto per anni dentro un clima relazionale fatto di tensione, critica, imprevedibilità, freddo emotivo o ipercontrollo. E oggi portano addosso un disagio reale: ansia, vergogna, difficoltà nelle relazioni, sintomi fisici, senso di vuoto o “allerta” costante.

Non serve “avere una diagnosi” per riconoscere questo fenomeno. L’idea centrale è semplice e scientificamente coerente: non è solo ciò che accade, ma anche ciò che si ripete e ciò che manca (sicurezza, sintonizzazione emotiva, protezione) a modellare il nostro sistema di regolazione emotiva.

Il “trauma prolungato” si riferisce a esperienze traumatiche ripetute o continue nel tempo, che portano a condizioni complesse come il Disturbo da Stress Post-Traumatico Complesso (C-PTSD), distinto dal PTSD classico, e lo Stress Traumatico Continuo (CTS), che si verifica in contesti di pericolo costante (guerre, abusi infantili) e causa sintomi pervasivi, alterazioni emotive e relazionali, e difficoltà nell’autopercezione, con la necessità di elaborazione specifica. 

Il Disturbo da Stress Post-Traumatico Complesso (C-PTSD) è una condizione che deriva da traumi ripetuti o prolungati (come abusi nell’infanzia o torture) e aggiunge ai sintomi del PTSD tradizionale (flashback, evitamento, iperattivazione) alterazioni più profonde nella regolazione emotiva, nell’autopercezione, nelle relazioni e nella dissociazione, rendendo la vita quotidiana difficile e portando spesso a sentimenti cronici di vergogna, vuoto e disperazione. È riconosciuto dallOMS (ICD-11) ma è ancora dibattuto nel DSM.

Una vignetta (molto comune) sul trauma legato ad un “clima”

Giulia, 32 anni, descrive così la sua infanzia: “Non mi hanno mai picchiata. In casa c’era tutto: cibo, scuola, vestiti. Però era come camminare sulle uova.” Il padre era imprevedibile: giorni di silenzio gelido alternati a scatti di rabbia per “sciocchezze”. La madre ripeteva: “Non farlo arrabbiare” e “non essere drammatica”. Giulia ha imparato presto a intuire l’umore altrui, a stare “brava”, a non chiedere troppo. Oggi è competente e responsabile, ma vive con insonnia, tensione cronica e la sensazione di essere sempre “in difetto”. Nelle relazioni teme il conflitto e, quando qualcuno si irrigidisce, va in panico: il corpo reagisce come se stesse per succedere qualcosa di pericoloso.

Questa è una fotografia tipica di un clima prolungato che lascia tracce: non tanto sotto forma di un singolo ricordo intrusivo, quanto come schema di funzionamento (interno e relazionale) appreso nel tempo.

Perché un “clima” contesto può ferire quanto un evento

Dal punto di vista psicologico e neurobiologico, un contesto ripetutamente stressante può allenare il sistema nervoso a rimanere in modalità “minaccia”. Il cervello non registra solo “cose che succedono”, registra anche probabilità: quanto è prevedibile l’ambiente? quanto è sicuro esprimere bisogni? cosa succede se sbaglio?

Quando il messaggio implicito è:

  • “Devi adattarti tu”

  • “Non fare problemi”

  • “L’amore dipende da come ti comporti”

  • “Se mostri emozioni, peggiori la situazione”

…la persona può sviluppare strategie che, in quel contesto, avevano senso: compiacere, controllare, evitare, spegnersi. Strategie utili allora, ma costose oggi.

I segnali più frequenti (e perché spesso si fraintendono)

Chi viene da un clima prolungato può oscillare tra due poli:

1) Iperattivazione (troppa energia di allarme)

2) Ipoattivazione (spegnimento)

  • vuoto, apatia, “sono stanco senza motivo”

  • difficoltà a sentire emozioni o desideri

  • blocco, procrastinazione, fatica a iniziare

  • momenti di disconnessione: “vado in automatico”, “non ricordo bene”

In mezzo, spesso compaiono:

  • vergogna e autocritica (“sono sbagliato”, “non valgo abbastanza”)

  • confini fragili (dire sempre sì, paura del conflitto) oppure confini rigidissimi (chiusura e fuga)

  • somatizzazioni (tensioni, tachicardia, disturbi gastrointestinali, cefalee)

  • pattern relazionali ripetuti: attrazione per persone indisponibili, iper-responsabilità, o paura dell’intimità

È importante sottolineare una cosa: molte di queste risposte non sono “difetti di personalità”. Sono adattamenti. Il problema non è che esistano, ma che restino attive anche quando non servono più.

“Ma allora è trauma?” Una parola utile, se non diventa una gabbia

Non tutte le persone con questa storia rientrano in una diagnosi specifica e non tutto è un trauma. Inoltre non è necessario forzare un’etichetta. Però la parola trauma (intesa in senso ampio, come impatto prolungato sulla sicurezza e sulla regolazione) può essere utile per togliere di mezzo l’auto-colpevolizzazione:

  • non sei “troppo sensibile”: sei stato allenato a intercettare segnali di pericolo

  • non sei “debole”: hai costruito strategie per reggere un contesto difficile

  • non sei “esagerato”: il tuo corpo reagisce a una mappa appresa del mondo

Cosa cerca un clinico (oltre al “cosa è successo”)

Una valutazione sensata guarda a domande come:

  • Quali emozioni erano ammesse? Rabbia, tristezza, paura erano tollerate o punite?

  • C’era sintonizzazione emotiva (“ti capisco”) o invalidazione (“non è niente”)?

  • Quanto era prevedibile l’ambiente?

  • Cosa succedeva quando chiedevi aiuto o mettevi un limite?

  • Qual è la strategia dominante oggi: compiacere, evitare, controllare, chiudersi, esplodere?

Questo sposta il focus dall’evento al funzionamento: come si è organizzato il sistema persona-ambiente.

Percorso di cura legato al trauma: non “cancellare il passato”, ma aggiornare il sistema

In molti casi il lavoro terapeutico procede per fasi, con obiettivi concreti:

  1. Stabilizzare e creare sicurezza: sonno, routine, riconoscimento dei trigger, riduzione dell’evitamento, strumenti di regolazione emotiva e corporea.

  2. Ridurre vergogna e autocritica: costruire una voce interna più equilibrata; distinguere colpa da responsabilità; lavorare sul perfezionismo come strategia di controllo.

  3. Rielaborare memorie e significati relazionali: spesso non è “un ricordo”, ma un insieme di micro-esperienze che hanno insegnato “non sono importante” o “se sbaglio, perdo l’amore”.

  4. Allenare confini e relazioni sicure: dire no, tollerare il conflitto sano, scegliere contesti coerenti, riconoscere segnali di sicurezza (non solo di pericolo).

  5. Integrare: conservare le competenze nate dall’adattamento (intuizione, attenzione, responsabilità) senza vivere in modalità allarme.

Un buon indicatore di miglioramento non è diventare “sempre calmi”, ma poter tornare alla calma più facilmente: recuperare dopo lo stress, non interpretare ogni ambiguità come minaccia, sentirsi legittimati ad avere bisogni. In questo modo si evitano le possibilità che si vada incontro ad un trauma psicologico.

Cosa non dire a chi ci passa (e cosa dire al posto)

  • Frase da non dire: “Ma non ti è successo niente di grave”.

         Frase accettabile: “Capisco: a volte non è un evento, è un clima. Se ti ha fatto stare in allerta per anni, ha senso che oggi il corpo reagisca così”.

  • Frase da non dire:Dai, i tuoi genitori hanno fatto del loro meglio”.

         Frase accettabile: “È possibile. E allo stesso tempo quello che hai vissuto può averti segnato. Possiamo tenere insieme entrambe le cose senza negare il tuo dolore”.

  • Frase da non dire: “Sei troppo sensibile / ci pensi troppo”.

         Frase accettabile: “Sembra che il tuo sistema sia stato allenato a cogliere segnali di rischio. Possiamo lavorare per renderlo più flessibile”.

  • Frase da non dire: “Basta mettere dei confini”.

         Frase accettabile: “Mettere confini è difficile se per anni è stato pericoloso farlo. Possiamo farlo a piccoli passi, in modo sicuro”.

  • Frase da non dire: “Devi perdonare e andare avanti.”

         Frase accettabile: “Andare avanti spesso significa prima capire cosa è successo dentro di te, dare un senso e recuperare libertà di scelta. Il perdono non è un obbligo”.

  • Frase da non dire: “Se ne parli, peggiori”.

         Frase accettabile: “Parlarne nel modo giusto, con gradualità e sicurezza, spesso aiuta a riorganizzare ciò che il corpo continua a vivere come presente”.