Negli ultimi anni, con l’espansione delle relazioni digitali e l’interconnessione sociale garantita dai social media, sono emersi nuovi comportamenti relazionali che sfidano le tradizionali dinamiche dell’attaccamento e della separazione. Uno di questi fenomeni è l’orbiting, termine coniato per descrivere una particolare forma di interazione post-rottura (o dopo un rifiuto) in cui una persona interrompe una relazione sentimentale o affettiva diretta, ma continua a osservare e interagire marginalmente con la vita dell’altro attraverso i social network. In altre parole, smette di comunicare attivamente, ma continua a “orbitare” attorno all’altro: mette “like” alle sue foto, visualizza le sue storie, commenta saltuariamente, ma non torna mai a un contatto autentico.
Che cos’è l’orbiting?
Il termine “orbiting” è stato inizialmente utilizzato in ambito giornalistico e poi adottato dalla cultura popolare, ma sta trovando crescente interesse anche nella psicologia clinica, specialmente nell’ambito della psicoterapia relazionale e dell’osservazione dei comportamenti di evitamento e attaccamento in epoca digitale.
A differenza del ghosting, che comporta la scomparsa improvvisa e completa di una persona da una relazione (senza spiegazioni o possibilità di contatto), l’orbiting è più ambiguo e passivo-aggressivo. Chi “orbita” non sparisce del tutto: mantiene una presenza periferica, invisibile ma percepibile, alimentando nella persona che subisce questa dinamica sentimenti di confusione, ambivalenza e disorientamento emotivo.
Implicazioni psicologiche
Dal punto di vista clinico, il comportamento di orbiting può avere effetti significativi su chi lo subisce. Le persone che sperimentano questo tipo di relazione discontinua riportano spesso emozioni di:
Ansia da attaccamento: l’ambiguità comunicativa stimola l’attivazione del sistema di attaccamento, mantenendo viva la speranza di una possibile riconnessione.
Ruminazione eccessiva: la persona cerca di dare un senso ai segnali ambigui, interrogandosi sul loro significato (“perché ha visualizzato la mia storia ma non mi ha scritto?”).
Svalutazione del sé: sentirsi ignorati nel dialogo ma osservati da lontano può evocare vissuti di inadeguatezza, come se si valesse abbastanza per essere spiati, ma non abbastanza per essere amati.
Difficoltà di elaborazione della perdita: l’orbiting ostacola il processo di elaborazione e separazione, tenendo viva la relazione in una forma “zombificata”, né viva né morta.
In seduta terapeutica, questo si traduce spesso in una difficoltà a “lasciar andare” relazioni tossiche o inconcluse, con il paziente che ritorna ciclicamente a osservare le azioni digitali dell’altro, come se fossero indizi per comprendere emozioni non espresse a parole.
Motivazioni psicologiche dell’orbiting
Chi mette in atto comportamenti di orbiting può agire per diverse motivazioni psicologiche. Alcune ipotesi includono:
Evitamento dell’intimità: chi orbita può avere difficoltà a gestire l’intimità o il confronto emotivo diretto, ma desidera comunque mantenere un legame simbolico con l’altro.
Bisogno narcisistico di controllo: mantenere una presenza osservante, senza esporsi, può rappresentare una forma di controllo narcisistico sull’altro (“voglio sapere cosa fa, ma senza concedergli nulla”).
Curiosità e noia: a volte, il comportamento non è carico di significati profondi, ma risponde a un impulso superficiale, facilitato dalla natura dei social network, dove tutto è a portata di click.
Paura del conflitto: l’orbiting può sostituire un vero addio, perché chi lo pratica non ha il coraggio di affrontare la fine della relazione con parole o gesti espliciti.
Dal punto di vista dell’attaccamento, chi orbita può presentare caratteristiche di un attaccamento disorganizzato o evitante, mostrando difficoltà a costruire legami chiari e coerenti.
Orbiting e cultura digitale
L’orbiting è reso possibile da un contesto socio-tecnologico che favorisce la presenza continua e la visibilità reciproca. Le piattaforme come Instagram, Facebook o TikTok permettono forme di interazione minimali (visualizzazioni, reazioni, commenti rapidi) che mantengono aperti i canali relazionali in modo sottile ma persistente. Questo favorisce lo sviluppo di dinamiche relazionali nuove, in cui la comunicazione implicita ha un peso maggiore rispetto alla parola.
Le relazioni si trasformano così in sistemi aperti, in cui non vi è mai una vera chiusura. Dal punto di vista clinico, questo può ostacolare il lutto relazionale e favorire una “cronicizzazione” dei legami: relazioni che non evolvono né si chiudono, ma permangono in una sorta di limbo psicologico.
Considerazioni cliniche
Per il terapeuta, è fondamentale riconoscere le dinamiche dell’orbiting come possibili fattori di sofferenza psichica, specialmente in pazienti con storie di abbandono, bassa autostima o difficoltà nel riconoscere e porre limiti relazionali. Alcuni obiettivi terapeutici rilevanti possono essere:
Favorire la consapevolezza del fenomeno, aiutando il paziente a dare un nome all’esperienza e riconoscerne la natura ambigua e tossica.
Rinforzare i confini psichici, aiutando la persona a riprendere controllo sulle proprie interazioni digitali e a bloccare o rimuovere le fonti di stress.
Elaborare il lutto relazionale, anche quando non c’è stata una vera rottura, ma solo un graduale distacco “passivo”.
Esplorare le proprie modalità di attaccamento, sia nella vittima dell’orbiting che in chi lo agisce, per comprendere meglio le proprie modalità di connessione e separazione.
L’orbiting rappresenta un nuovo volto del rifiuto relazionale nella società contemporanea, dove la disconnessione fisica non implica la fine del legame simbolico. Dal punto di vista clinico, questo fenomeno può avere un impatto profondo sull’elaborazione del lutto, sulla percezione di sé e sullo sviluppo di relazioni future. La psicologia clinica è chiamata a integrare strumenti e conoscenze che tengano conto delle nuove forme di interazione digitale, riconoscendo il potere trasformativo — e talvolta patologico — che i social media esercitano sulle nostre vite emotive.
Comprendere l’orbiting significa, oggi più che mai, interrogarsi su come i legami si costruiscono, si mantengono e si dissolvono nell’era della connessione continua.