La sindrome di Stoccolma: reazione paradossale alla prigionia - Psicologo Prato Iglis Innocenti

La sindrome di Stoccolma: reazione paradossale alla prigionia

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Oggi è morto il “padre” della cosiddetta Sindrome di Stoccolma. Di cosa si tratta? La psicologia quali spiegazioni ha fornito negli anni di questa particolare e affascinante sindrome?

La sindrome di Stoccolma è un fenomeno psicologico complesso, che sfida le intuizioni comuni sulla vittimizzazione, la sopravvivenza e le dinamiche relazionali in situazioni di coercizione. Il termine si riferisce a una condizione in cui le vittime di rapimenti, abusi o situazioni di controllo intenso sviluppano un legame emotivo positivo, talvolta di lealtà o affetto, verso i propri sequestratori o aggressori. Questa risposta può apparire controintuitiva, ma rappresenta un meccanismo psicologico di adattamento volto a garantire la sopravvivenza in contesti estremi.

Origine del termine

Il termine “sindrome di Stoccolma” fu coniato nel 1973 da Nils Bejerot, uno psichiatra svedese, in seguito a una rapina alla Kreditbanken di Stoccolma, durante la quale due criminali armati presero in ostaggio quattro impiegati per sei giorni. Al termine del sequestro, gli ostaggi non solo difesero i loro rapitori dalla polizia, ma si rifiutarono anche di testimoniare contro di loro in tribunale. Alcuni di loro mantennero persino rapporti amichevoli con i sequestratori dopo il rilascio. Questo comportamento fu interpretato come un paradossale legame emotivo sviluppatosi tra vittime e aggressori.

Meccanismi psicologici alla base

La sindrome di Stoccolma non è riconosciuta come diagnosi ufficiale nei principali manuali diagnostici (DSM-5, ICD-11), ma viene spesso discussa in letteratura clinica come manifestazione di un complesso processo psicologico di adattamento. Alla base del fenomeno si trovano diversi meccanismi difensivi e dinamiche relazionali:

  1. Identificazione con l’aggressore: questo concetto, originariamente formulato da Anna Freud, descrive un meccanismo di difesa in cui l’individuo interiorizza le caratteristiche dell’aggressore per ridurre la minaccia percepita. L’identificazione permette alla vittima di sentirsi meno in pericolo e, in un certo senso, parte del gruppo dominante.

  2. Senso di dipendenza: in situazioni di sequestro o abuso prolungato, la vittima si trova totalmente dipendente dal proprio aguzzino per il cibo, la sopravvivenza e le informazioni. Questo squilibrio di potere può portare a interpretare anche piccoli gesti di umanità come atti di gentilezza, generando un legame emotivo distorto.

  3. Distorsione cognitiva e trauma bonding: la condizione traumatica costringe la mente a ricostruire la realtà in modo funzionale alla sopravvivenza. Si sviluppa un “trauma bond”, un legame profondo che si crea in presenza di cicli ripetuti di violenza e ricompensa. La vittima può provare gratitudine verso l’aggressore ogni volta che viene evitata una punizione o quando riceve un trattamento relativamente benigno.

  4. Difesa dell’Io e negazione: per ridurre la dissonanza cognitiva generata dall’essere maltrattati da un altro essere umano, le vittime possono iniziare a negare o minimizzare la gravità dell’abuso, fino a giustificare o razionalizzare i comportamenti del proprio aggressore.

Contesti di manifestazione della Sindrome di Stoccolma

Sebbene il termine sia nato in un contesto di rapimento, la sindrome di Stoccolma può presentarsi in una varietà di situazioni in cui una persona è soggetta a una relazione asimmetrica e coercitiva:

  • Violenza domestica: le vittime possono restare legate al partner abusante, giustificando il comportamento violento e mostrando fedeltà emotiva, anche a dispetto di evidenze contrarie.

  • Abusi infantili: bambini abusati possono sviluppare attaccamento verso i genitori o tutori abusanti, in quanto unica figura di riferimento affettivo disponibile.

  • Sette religiose o organizzazioni coercitive: i membri possono mostrare totale devozione ai leader nonostante dinamiche manipolatorie e violente.

  • Prigionia e rapimenti prolungati: come nel caso originario, la sindrome può svilupparsi tra vittime di sequestro e i loro carcerieri.

Implicazioni cliniche e trattamento

Il riconoscimento della sindrome di Stoccolma è fondamentale nel lavoro psicologico con le vittime di abusi e coercizione. Spesso le vittime non si percepiscono come tali, mostrando invece atteggiamenti di protezione verso i propri aggressori. Questo può complicare l’intervento terapeutico e legale, specialmente nei casi di violenza domestica, in cui la vittima può tornare ripetutamente dal partner abusante.

La presa in carico clinica richiede un approccio sensibile e privo di giudizio. Gli interventi devono aiutare la persona a riconnettersi con la propria identità, rafforzare l’autostima e ricostruire una narrazione coerente dell’esperienza vissuta. Alcune tecniche utili possono includere:

  • Psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT): per affrontare le distorsioni cognitive e ristrutturare le convinzioni disfunzionali.

  • EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing): per l’elaborazione del trauma.

  • Terapia narrativa: per aiutare la vittima a riappropriarsi del proprio vissuto in una cornice più funzionale.

  • Supporto psicoeducativo: per informare la persona sulle dinamiche dell’abuso e della manipolazione psicologica.

Critiche e limiti del concetto

Alcuni studiosi hanno criticato l’uso del termine “sindrome di Stoccolma” come eccessivamente generico, riduttivo o stigmatizzante. Si è sostenuto che il concetto può essere utilizzato impropriamente per patologizzare la vittima, spostando l’attenzione dalla responsabilità dell’aggressore. Inoltre, il termine viene talvolta applicato con leggerezza in ambiti mediatici, allontanandosi dalla sua base clinica.

Conclusione

La sindrome di Stoccolma rappresenta un esempio potente della complessità della psiche umana in situazioni estreme. Non si tratta di un “attaccamento inspiegabile”, ma di una strategia adattiva sofisticata, sebbene disfunzionale a lungo termine. Comprenderla, dal punto di vista clinico, significa rispettare i meccanismi con cui la mente cerca di proteggersi dal terrore, riconoscendo che anche i comportamenti più strani o incomprensibili possono avere radici nella sopravvivenza e nella resilienza. L’obiettivo del lavoro psicoterapeutico è guidare la persona fuori da questa confusione affettiva, restituendole la possibilità di scegliere relazioni basate sulla libertà e sull’equilibrio.